Collezione: Loretta Cappanera

Luca Pietro Nicoletti

La grafia tessile di Loretta Cappanera

L’approdo di Loretta Cappanera alla tessitura affonda le radici nelle arti grafiche. Avvenne infatti nella sua formazione, quando frequentò negli anni Novanta la Scuola Internazionale della Grafica di Venezia - di cui divenne poi docente per lungo tempo – l’incontro folgorante con il mondo del libro d’artista e con le tecniche dell’incisione, a cui votò un lungo tratto del suo lavoro, trasferendo poi competenze e metodi di indagine - secondo una metodologia assimilabile alle tecniche dell’assemblaggio di tradizione novecentesca – nel momento in cui sceglierà il filo colorato come strumento di disegno e composizione. In queste esperienze, infatti, si annidano le premesse di un certo modo di ragionare sulle immagini e sulla loro costruzione paziente attraverso lenti procedimenti esecutivi, che impongono un ritmo e, soprattutto, una disciplina del lavoro artigianale. L’incisione calcografica, fra intaglio e acidature, impone tempi lunghi per fissare un risultato, e richiede all’artista una previsione a priori sul risultato finale, un azzardo sui tempi di morsura e l’intensità del segno o della campitura che ne conseguono. L’incisione su legno, invece, richiede un’ulteriore ginnastica mentale, perché non si disegna in punta d’acciaio come se fosse una penna - con la sola accortezza di immaginarsi specularmente i segni che si vanno a tracciare – ma si incidono i vuoti per lasciare in superficie i futuri segni scuri, scomponendo l’immagine su più matrici in caso di opere a più colori. Viene naturale, dunque, quell’attitudine alla separazione e ricostruzione, allo smontaggio e alla mescolanza di tecniche, sfruttando la duttilità della matrice nel depositare l’inchiostro sulla carta come su qualsiasi altro tipo di supporto. Stampando su tessuto, la silografia consentì a Loretta Cappanera di inserire di volta in volta nel palinsesto tessile delle immagini figurative elementari, desunte dal repertorio dell’antichità classica come dagli oggetti dei mestieri domestici (le macchine da cucire) o dalla geografia, che andranno a interagire con il filo ricamato a punti larghi come segni di traiettorie regolari disposti sulla superficie. 

Rispetto al puro pittore, poi, l’artista che ha dimestichezza con le tecniche della stampa sviluppa nei confronti delle immagini una sensibilità tattile nei confronti degli spessori dell’inchiostro sul supporto, percepibili solo al polpastrello, come il rilievo effimero della stampa a secco: Loretta, in particolare, non dimenticherà mai questi aspetti, e per un istinto naturale reinventerà certi principi tecnici per riportare effetti di colore e materia sulla stoffa.

Il libro, invece, è per definizione un universo polimaterico, specialmente in quei casi in cui è l’artista a prenderne in mano la realizzazione dal taglio della carta alla messa in pagina, fino alla rilegatura. È questo che ne fa un palinsesto di interventi con più tecniche e procedimenti plurimi, che forzano o reinventano la forma stessa del volumen, oscillando fra licenze tipografiche, incisione e arte della legatoria: la stessa fenomenologia del libro d’artista richiede un approccio progettuale, una suddivisione del processo in operazioni elementari da eseguire secondo una sequenza ragionata, senza tuttavia perdere freschezza nell’opera finita. Sin dagli anni veneziani, Loretta aveva capito di prediligere la dimensione intima della pagina, che si fruisce tenendo il foglio fra le mani abolendo la distanza fra fruitore ed oggetto, e in termini di libro d’artista continuerà a ragionare anche quando le sue pagine di tela, slegate l’una dall’altra, verranno montate su telaio come dipinti veri e propri: i formati resteranno quelli del volume che si può tenere in libreria, con la scansione delle pagine rilegate a quinterni o dei leporelli piegati con un ritmo incalzante del racconto. Ed è proprio grazie alla Scuola, e a quel crocevia di incontri internazionali che caratterizza Venezia, che Loretta fece alcuni incontri cruciali: grazie alle buone relazioni della scuola con le università statunitensi, dove i dipartimenti di belle arti non sono separati dagli altri campi del sapere, e dove il libro d’artista ha lo statuto di disciplina autonoma più che in Italia, arrivarono in Italia docenti da oltreoceano portando un’esperienza e un modo di approcciare il libro diverso dalla cultura europea. L’incontro decisivo, però, fu con un’artista italiana che aveva realizzato dei libri con pagine di tessuto su cui aveva ricamato una scrittura illeggibile, come un corsivo reso illeggibile dal filo di lana nero che sembra voler fuggire dalla pagina: grazie a Maria Lai, infatti, Loretta Cappanera capì che si poteva fare pittura usando un materiale già colorato come il filo, e che quel bagaglio di esperienze pregresse poteva essere utile anche nel momento in cui il lavoro non passava più dalla lenta asportazione di materia dalla matrice di legno, ma dalla cucitura di ogni filo e dalla giustapposizione di pezze di stoffa pre-lavorate. I problemi da affrontare, in fondo, rimanevano di ordine grafico e pittorico: individuare un proprio segno personale e un principio di forma da approfondire di variazione in variazione. Ne dava prova in Inventare altri spazi, il libro del 2008 nato da un seminario insieme alla Lai ad Ulassai: pagine di tessuto con interventi grafici in cucitura si alternavano a pagine di carta con testi battuti a macchina variando graficamente la disposizione delle tre parole del titolo, o con l’impressione a secco del tessuto, o con file di buchi che tramite spostamento di carta creano un motivo a rilievo mutevole a seconda della luce. È un momento in cui gli artisti hanno deciso di passare sotto il torchio di tutto, approfondendo insistentemente il tema dell’impronta.

Su questo fronte, però, Loretta Cappanera aveva da giocare un’altra carta, realizzando delle pezze di stoffa brunite - da ritagliare poi frammenti più piccoli da applicare per arricchire il palinsesto come in un collage – grazie al rilascio di ruggine ottenuto premendo delle lastre di corten su tessuto imbevuto di acqua e sale, provocando macchie di diversa intensità a seconda del tempo di esposizione (come nella morsura) e della trama del supporto, oltre agli imprevedibili effetti che può sortire il libero itinerario compiuto dalla fioritura. Un’ulteriore variante, poi, è costituita dalle lastre sagomate, o su cui è stato intagliato un disegno in negativo, in modo tale che ne riaffiori l’impronta bianca, introducendo un elemento iconico stilizzato, dalla foggia delle antiche anfore al profilo delle korai classiche, andando ad accentuare quella predilezione tipica dell’artista per i materiali vissuti, portatori di un contenuto memoriale. «I tessuti stessi non sono corpi inerti della contemplazione disinteressata o dell’uso» faceva notare Eleonora Fiorani nel 2015, «ma corpi viventi, in grado di sprigionare al tatto e alla vista un’energia che ci attrae, ci incanta o ci turba. E ugualmente ciò avviene con il gioco di tonalità dei loro colori. A loro volta anche le forme sono portatrici di linee di tensione».

La vera scommessa, però, sta nell’itinerario dei singoli fili, sopra e sotto la superficie, compatibilmente con la lunghezza della gugliata. Il tessuto e la cucitura consentono di lavorare contemporaneamente sui due lati della pagina, con tratti più lunghi sul fronte e brevi intervalli sul retro, o viceversa. L’artista sceglie una tavolozza di partenza, fatta di colori pieni, coprenti e non mescolabili - salvo addizioni divisioniste - e con questa costruisce una trama di segmenti che vanno a campire porzioni di spazio, a suggerire trasparenze virtuali e possibili sovrapposizioni di forme, dichiarando una discendenza dai rigori delle ricerche astratto-analitiche. Eppure, la pagina di tessuto si ispessisce, diventa morbida, e su questa fluttua una geometria gentile.

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