Giuseppe Zigaina - La metamorfosi tra inchiostri e anatomie

Giuseppe Zigaina - La metamorfosi tra inchiostri e anatomie

Nel laboratorio dello stampatore, l’esposizione racconta il farsi dell’opera e l’incontro tra lastra e foglio, tra il mondo artistico dell’incisore e i saperi alchemici dello stampatore che consentono al mondo buio e misterioso della lastra la metamorfosi che porta all’opera d’arte.

La profondità del pensiero inciso di Giuseppe Zigaina trova casa naturale nel laboratorio dove il lavoro solitario e notturno dell’artista incontra nelle prove di stampa e nel finale bon a tirer l’avvio alla tiratura che è soluzione e luce che si compie davanti al torchio, nella silenziosa e complice attesa dell’artista e dello stampatore.

Se oggi in scena alle pareti di Via Ermes di Colloredo è solo l’esito finale del processo grafico -il foglio cioè con l’impronta della lastra- l’origine è lontana e sta nel segno, scelto tra gli infiniti possibili, tracciati cautamente uno di seguito all’altro, secondo il senso che Zigaina vuole dare al pensiero in un incontro tra realtà, visione e sogno che trova rispon- denza profonda e misteriosa.

Tra lastre, fogli e tarlatane, tra profumi di inchiostri e acidi, si coagula il mondo antico e denso della calcografia e la mostra, in un apporto alla parola chiave di vicino/lontano 2024, da qui parte per raccontare la metamorfosi che attraversa i grandi temi che Zigaina ma- tura proprio negli anni più intensi della sua dedizione ai procedimenti calcografici. Forse Zigaina qualcosa deve all’acquaforte, alla sua esattezza quanto al suo odore di alchimia che gira con forza misteriosa in ogni strumento e materia, in ogni gesto e sapere, sino al tempo sospeso e alle attese che questa tecnica richiede.

La mostra per questo inizia con un omaggio al primordio della calcografia che sta nell’o- maggio ad uno dei suoi massimi maestri: Albrecht Dürer. Più volte Zigaina tra gli anni Settanta e Ottanta a lui guarda e sulla lastra riporta citazioni e prelievi tratti dalla sua opera pittorica quanto da quella incisa.

Così è per La mano e il fiore del Dürer dove -tra acquaforte e acquatinta, tra primo e secondo stato di stampa- il fiore (forse lo stesso con cui, giovane, il maestro nordico si ritrae?) si protende verso la mano, destra sulla carta e sinistra sulla lastra, in un gioco di specchi scivoloso. E la mano, portatrice dell’intelligenza del fare, è paesaggio e notomia insieme introducendo questa volta dal punto di vista tematico, il principio della metamorfosi che alimenta il percorso dell’esposizione. Da questo fiore e da questa mano-paesaggio ci inol- triamo per attraversare quanto Zigaina stesso scrive mentre «per un attimo di distrazione», pensa se stesso leggermente chino sulla lastra, a un passo dalla vertigine. Dobbiamo allora insieme a lui immaginare come, a un certo punto, l’occhio che segue il movimento della mano diventi la punta lucente di un bisturi e come il metallo perda durezza, consistenza, freddezza per prendere la temperatura del corpo dell’incisore. È qui che la lastra diviene luogo dove si fermano sogni e visioni; si trasforma in lavagna dove ogni segno è scelto nel- la memoria per ricomporre logiche nuove «secondo il senso che si vuole dare alla propria esistenza». Così scrive Zigaina, che parla di un misterioso «sprofondare nell’immagine». L’artista ci porta in un’altra realtà, dove i paesaggi si fanno anatomia e dove coltivi, vigneti e la laguna all’orizzonte hanno radice in un profondo che si fa, lui dice, «altro». Da questo profondo possiamo esaminare insetti brulicanti in corpi devastati dalla guerra. Li osservia- mo nel loro trasformarsi in farfalle notturne che volano su fertili campi di grano e su Re- dipuglia. Vediamo le farfalle deporre catene di uova già pronte a dischiudersi in prossime guerre seguendo mutazioni che nel farsi dell’incisione Zigaina individua con esattezza di forma e pensiero. Leggiamo i cambiamenti, profondi, complicati, passare dall’occhio all’e- sistenza, dalla forma alla tecnica, dallo spazio al tempo e farsi vivi nella storia dell’uomo quanto nelle mutevoli vite di ciascuno.

E leggiamo alle pareti della stamperia i grandi temi attorno a cui gira e rigira l’opera di Zigaina; la leggiamo forse più precisamente nei Paesaggi come anatomia, dove l’esistenza dell’autore si incarna nel territorio, la vediamo scorrere sui campi di battaglia dove tra re- altà e visione le immagini delle segrete metamorfosi che avvengono nell’oscuro della terra raccontano di insetti e larve e del lavorio continuo che alimenta il ciclo della vita e della storia. Le osserviamo nel chinare la testa dei girasoli. Le leggiamo ancora nelle scalinate del grande sacrario che a Redipuglia, memento severo e grandioso, per sempre definirà nell’o- pera di Zigaina la dualità tra un sotto e un sopra dove tra realtà e visione tutto accade.

La riemersione richiede la mano dello stampatore, che in odore di alchimia offre al torchio la magia del ribaltamento dell’immagine. Così, «come in uno specchio», quasi per magia, è offerta l’immagine che si dà per impronta. Cosa ci sia tra lastra e foglio è difficile a dirsi, ma è da questa metamorfosi che nasce l’acquaforte.

E dalla riemersione nasce la chiusura della mostra attraverso un altro omaggio, quello che Zigaina rivolge al Picasso di Guernica, al grido contro la violenza e la morte e la guerra del grande maestro spagnolo, maestro disse Zigaina nel 1973, «che tenta di risolvere (e lo risolve), il grande dramma dell’artista moderno: salvare la libertà dell’arte senza rinunciare al suo impegno civile».

Anche in questo caso l’omaggio si sviluppa attraverso più lastre, tutte realizzate nel 1972 di cui questa in esposizione è la terza e ultima. L’attualità del lavoro di Zigaina è qui in tutta la sua evidenza, forza e affondo storico.
I 100 anni di Zigaina sono anche i 50 anni di lavoro di Corrado Albicocco che in questa mostra ricorda il suo maestro, quello che varcando la soglia della stamperia ha cambiato il corso del suo lavoro.

 

Francesca Agostinelli